Non ho certo la presunzione di poter essere io a spiegare o catalogare la poesia di Gisella, non saprei, né potrei farlo. Inoltre, ho un tale affetto e ammirazione per lei, che qualcuno potrebbe sospettare piaggeria e inutili adulazioni. Non è così, perché ho provato a leggere quei componimenti in maniera distaccata, come se a scriverli fosse stato qualcun altro, una persona alla quale non mi lega amicizia o reverenza, e li ho letti, riletti, osservati, scanditi e, con grande meraviglia, ho scoperto che qualcuno aveva capito e raccontato di me più di quanto io stessa avrei potuto fare. Subito colpisce il titolo “Sulla mia carne morbida”: il canto, che prende spunto da un piccolo oggetto, diventa esaltazione della carne morbida che raccoglie, avvinghia la dea, la avviluppa, ne protegge il simbolo, ne è il simbolo. L’emblema della dea più importante fra tutte le divinità, quella necessaria, essenziale, primigenia, che lega tutti i popoli e si carica di immagini, ponendosi come tramite fra l’umano e il divino, perché sola ha il potere di creare. Da qui parte un canale sotterraneo, che lega tutti i componimenti seguendo il filo sottile dell’amore in tutte le sue manifestazioni, che siano di passione, di dolcezza, d’amicizia, di rimembranza, di tutti i teneri sensi, i tristi e cari moti del cor come diceva Leopardi. Amore forte, tanto forte, troppo forte, da portare la poetessa a non perdonare chi non è stato in grado di capirlo e di accoglierlo, per cui, come dice Manlio Massole nella prefazione, a quel punto, “l’amore diventa furia verso chi non ha capito”. Eppure, il perdono c’è, si placa la furia. Il rifiuto non è stato in grado di spegnere la passione di una donna che, nonostante la disillusione, il disinganno, il disincanto, ama e celebra la vita e ancora, per citare la stessa poesia, generosa allatta impalpabili figli.
Allo scopo, sono congeniali le altre fotopoesie di Gisella, coraggiosa e audace come solo può esserlo una grande Donna, che si mette letteralmente e metaforicamente a nudo e ci invita, con la sua bellezza, a trascendere il facile giudizio e vedere l’incanto, la grazia, l’armonia che lega il presente al passato vissuto appieno, in cui la natura è sempre generosa, anche quando, come i sassi-dolore di cui parla in Feraxi, hanno rischiato di ferirla e farla cadere nell’acqua scura; anche quei sassi, simbolo di limite, di dolore, di rallentamento verso la felicità, sono utili, fanno parte del tutto, sono comunque un Paradiso. Gisella ha spogliato se stessa per rivestirsi, e vestire anche noi di immagini e versi; versi e immagini in un rimbalzo, un riflettersi costante, un riverberarsi continuo di simboli estetici che si basano sulla sensazione, sulla percezione mediante i sensi. Gisella ci conduce nella strada della bellezza, che, insieme al vero e al bene, rappresenta da sempre uno dei valori supremi.
Poesie e immagini comunicano, si ispirano a vicenda, indagano reciprocamente le prospettive, offrono le une alle altre la giusta angolazione da cui guardare il mondo e fissare un’immagine che resterà eterna perché ci farà ricordare; ricordare, nel senso etimologico di riportare al cuore. Poesie come Discendenza o Pane di Dio, le avrei scritte io, se ne fossi stata capace. Ma perché dovrei scriverle io, se qualcuno l’ha fatto per me? Sono mie, mi appartengono, parlano di me. E ancora, Stanza n° 30 mi ha fatto scavare in profondità: ho dovuto informarmi su argomenti di cui non sapevo nulla, per capire, e subito è stato istintivo rievocare un vecchio libro intitolato Il Dio delle piccole cose, di Arundhati Roy, nel quale l’amore è raccontato attraverso lo sguardo di due bambini che riescono a coglierlo nelle piccole cose, appunto. L’impalpabile diventa essenziale in questa poesia d’amore, in cui Gisella, nelle metafore musicali che usa, non si identifica con le parti principali della partitura ma con gli abbellimenti, che, nel gergo musicale, indicano quelle noticine accessorie che rubano una briciola di tempo ed esistenza ai protagonisti principali della scena e che, con la loro presenza, possono rendere un’interpretazione personale e unica. Questo è il messaggio che ho colto in quasi tutti i componimenti: spesso, ciò che è sfuggente e piccolo trasforma il mondo, volgendolo al bene, e ciò che sembra momentaneo, effimero, caduco, quello che i filosofi chiamano il transeunte, sorprendentemente diventa essenziale. (Donatella Curreli)