Giornata contro la violenza sulle donne

In un post in rete, condiviso e quotato da donne che stimo, ci si indigna contro il pullulare, in questi ultimi giorni, di foto di donne segnate da percosse, legate, devastate, fatte a brandelli. Immagini, in tutti i casi, indicative di passività, che oscurano, d'altro canto, gli esempi femminili positivi, che, invece, alle violenze si ribellano. Sono d'accordo, ma pare che, di questi ultimi, non ce ne siano tanti e non facciano abbastanza notizia, a meno che le donne non muoiano durante lo slancio di ribellione...

Ecco perché, nella maratona di lettura di stasera, organizzata dall'associazione Se Non Ora Quando?, ho optato per le due modalità di omaggio al 25 novembre: parole di donne che soccombono e di donne che si ribellano.
Quelle che si ribellano, in realtà, le rappresento quotidianamente nella mia vita, perché, per mia fortuna, sono una di loro, anche se sarebbe meglio non abbassare mai la guardia.

Per dare spazio alle prime, al di là delle parole, ho scelto anche di indossare un simbolo di ciò che consapevolmente non mi capiterà di vivere. A meno che un pazzo non mi colpisca all'improvviso per la strada, voglio dire, so che un uomo non arriverebbe a colpirmi, semplicemente perché andrei via prima.

Perché ne sono così sicura?

Da giovanissima, presi uno schiaffo, da un ragazzo con cui stavo, durante un litigio per motivi politici (per questo non mi accompagno mai più con chi sta dall'altra parte della barricata 🙂 )
Non era una persona violenta, suppongo che non lo sia diventata nel frattempo. Io, però, mi allontanai da lui drasticamente in quel momento; non esattamente per lo schiaffo, che non mi lasciò neppure un piccolo segno, ma per il suo desiderio di prevaricarmi, di voler decidere per me, di esigere da me un'appartenenza a idee che non mi appartenevano; lo schiaffo mi illuminò, semplicemente, alla consapevolezza che mai nella vita avrei permesso a nessun uomo di scaraventare su di me le proprie ombre irrisolte. Né con uno schiaffo, né con frasi o atteggiamenti offensivi.

In realtà, come le mie colleghe teatranti, l'ho permesso tante volte, ma solo in scena, quando indosso abiti che mi proiettano in un attimo e senza filtri dentro il vissuto dei personaggi che interpreto, anche solo per il tempo di una canzone, di una poesia, e che quasi sempre sono estremi, nel bene e nel male. Quell'abito crea un transfert immediato, a volte più immediato di mesi stanislavskiani spesi a cercare l'essenza di un'emozione.

Perciò, come un abito di scena, ho indossato questo livido, truccato con maestria da Filippo Grandulli e reso ancora più verosimilmente autentico dall'occhio fotografico di Daniele Coppi: questo livido finto mi fa esperire nel profondo qualcosa che non mi appartiene e non mi apparterrà mai.

(Se escludiamo le cause di forza maggiore 🙂
https://m.facebook.com/photo.php?fbid=3548881253523&id=1617332022&set=a.3279851687952.145203.1617332022&source=43 )

Contemporaneamente, mi unisce per alchimia empatica alle donne che, invece, di lividi, veri, sul corpo e nell'anima, fanno collezione. E mi motiva ulteriormente a dare voce al loro silenzio.

È un simbolo e come tale l'ho indossato. Un simbolo può significare ciò che vuoi o ciò che non vorrai mai. Può essere catartico e apotropaico, come lo è in scena morire, prostituirsi o essere stuprate. Esporre il simbolo aumenta il suo potere.

Certo, il simbolo dev'essere sostenuto da contenuti profondi. Ma qualunque simbolo si scelga per manifestare e lottare, come dicono le compagne kurde, loro, sì, di simboli e di lotte se ne intendono: “Jin, Jîyan, Azadî”, che le donne vivano in libertà!

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